Informazioni personali

La mia foto
LOCALITA':Rocca San Giovanni, CH, Italy
LA BELLEZZA E L'INCANTO DI UN LUOGO DOVE IL VISITATORE VIENE TRAVOLTO E MISTERIOSAMENTE ATTRATTO...COCCOLATO DALLE COMODITA' NATURALI E IL TEMPO SI FERMA INESORABILE, RUMORI DI UN INFINITO CHE SI ASCOLTANO, MEDIATO DAI COLORI DELLA CAMPAGNA IMPASTELLATO DI VERDE SIMILE A SMERALDO

NOTIZIARIO ANTIMPERIALISTA

Allarme siccità e carestia. Laura Boldrini: “I profughi pagano il prezzo della speculazione finanziaria


La portavoce dell'Alto Commissariato ONU per i rifugiati parla della situazione nel Corno d'Africa
Nel campo profughi di Dadaab, ai confini con il Kenya, ci sono 400 mila persone di cui oltre 100 mila provengono dalla Somalia. Fino a quando il grano verrà utilizzato come energia combustibile non ci sarà alcuna possibilità per quelle persone
12 agosto 2011
Fonte: http://www.articolo21.org/3672/notizia/allarme-siccita-e-carestia-laura-boldrini.html
Madri costrette a scegliere quali figli lasciar morire per riuscire a portare gli altri all’interno del perimetro del campo profughi. Uomini, donne e bambini che dopo settimane di marcia senza acqua e cibo diventano carne per gli animali selvatici ugualmente affamati. Sono le immagini della “più grande carestia planetaria” come la definisce Laura Boldrini, portavoce dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati. Nel Corno d’Africa sono 11 milioni le persone al limite della sussistenza, in tre mesi sono morti 29 mila bambini e per le Nazioni unite il rischio è che questa carestia si protragga fino al prossimo dicembre.

Nel campo profughi di Dadaab, ai confini con il Kenya, ci sono 400 mila persone di cui oltre 100 mila provengono dalla Somalia. Di questi 30 mila si trovano ai margini dell’area in attesa di essere registrati. Costruito 20 anni fa Daadab avrebbe dovuto ospitare al massimo 90 mila persone, ma oggi è il più grande campo al mondo, qui ogni giorno gli arrivi sfiorano quota 2 mila e l’80 per cento è rappresentato da donne e bambini. L’esodo biblico dalle zone dove l’Onu ha dichiarato l’emergenza fame è causato dalla guerra tra le truppe del governo e i ribelli islamici.

Conta poco se proprio ieri le agenzie hanno battuto la notizia che Mogadiscio è stata “liberata” dai militanti islamici di al-Shabab. Rimangono parole senza senso anche quelle del presidente somalo Sharif Cheikh Ahmed che ha riferito: “Anche il resto del Paese verrà ugualmente liberato presto”.
Frasi che non hanno alcun significato per le carovane della disperazione, che tentanto di sopravvivere al limite dell’umanità.

Gli uomini hanno come unica alternativa quella di arruolarsi nelle milizie shabab (“ragazzi” in lingua somala) gli stessi dai quali debbono fuggire le loro donne e figli. “Non è facile cercare di raccontare tutto questo – confessa Boldrini -. Non è semplice chiedere di aiutare chi sta tanto lontano da noi, soprattutto in questo periodo di crisi ma lo dobbiamo fare. Perché altrimenti avremo sulla coscienza tutti coloro che non riescono a vivere”.

Per fornire protezione e soddisfare le prime necessità dell’intero Corno d’Africa – almeno fino alla fine dell’anno – le Nazioni Unite hanno chiesto oltre 144 milioni di dollari ma ne hanno ricevuti 65 milioni, pari solo al 45% del necessario. Portare aiuti in Somalia, poi, è un’impresa. Nei giorni scorsi un commando dell’esercito ha addirittura attaccato una colonna di camion del Programma alimentare mondiale. Non esistono buoni o cattivi tra chi ruba beni di prima necessità, perché tutti sono ugualmente disperati mentre i militari sparano sulla folla. Uomini e donne, le cui vite valgono meno di un pugno di grano, il cui prezzo ormai è centuplicato e diventato inaccessibile.

“La siccità è un flagello naturale ma le responsabilità di tutto questo, da oltre venti anni, sono da ricercare altrove – attacca Boldrini – e fino a quando il grano verrà utilizzato come energia combustibile non ci sarà alcuna possibilità per quelle persone. Sono loro a pagare il prezzo più alto delle speculazioni finanziarie globali. Ed è su questo che bisogna intervenire a tutto campo. Solo così riusciremo a capire anche quelli che tentano di approdare sulle coste di Lampedusa”.
Laura Boldrini parla anche dei tagli alla cooperazione e lancia un appello: “Di questi tempi non è facile raccontare ciò che accade senza rischiare di apparire quelli che fanno sensazionalismo a tutti i costi. Peggio è riuscire ad avere spazi sui giornali e nei programmi televisivi perché le priorità sono altre. Così quelle persone rischiano di essere invisibili. Mai come in questo momento l’aiuto di ognuno di noi può servire”.

Secondo le stime, ad oggi, 43 milioni di persone non possono vivere a casa loro e la maggior parte si trova nel sud del mondo, nei Pesi confinanti a quelli da cui fuggono nella speranza di potervi tornare.
Anche per questo secondo la portavoce Unhcr Boldrini, sarebbe fondamentale riuscire ad impedire gli esodi di massa, magari costruendo campi profughi dove avvengono i fatti, evitando le migrazioni dei popoli, che accendono epidemie che poi diventano morte.

“Molte famiglie arrivano al campo dimezzate. I primi a morire sono i vecchi poi i bambini. Per ora siamo riusciti a trasferire tre mila rifugiati da Dadaab i Ifo Extension2 spiega raccontando la sopravvivenza in quella parte del mondo.
I rifugiati si sono insediati spontaneamente ai margini del campo Ifo dove funzionano servizi igienici e serbatoi da 10 mila litri di acqua di cui beneficiano 734 famiglie (oltre 3 mila persone).
Per la fine di novembre il progetto dell’Unhcr prevede alloggi in tende per almeno 90 mila rifugiati.
In Etiopia, al campo di Dollo Ado, sono arrivati altri 75 mila somali in fuga dal conflitto, dalla siccità e dalla carestia nel proprio Paese. Un flusso continuo silenzioso e invisibile.

* Pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”



Riconoscimento all'Onu e svendita dei diritti palestinesi: l'accusa di un esperto

Un esperto legale afferma che qualsiasi accordo all’Onu vedrà il riconoscimento dello stato palestinese in cambio del riconoscimento di Israele come “stato ebraico”.

Memo. Un esperto di diritto internazionale ha espresso timori su un “patto politico” che si sta delineando nel quartier generale dell’Onu, a New York, che mira ad ottenere il riconoscimento internazionale ed arabo di Israele in quanto "stato ebraico" in cambio del riconoscimento di uno stato palestinese lungo i confini dei territori occupati nel 1967.

Durante una conferenza tenuta ad Amman mercoledì 21 settembre, Anis Al-Qassem ha dichiarato: “La mobilitazione americana, israeliana ed europea contro gli sforzi palestinesi alle Nazioni Unite potrebbe condurre a un tipo di intesa simile alle clausole israeliane per il riconoscimento palestinese di Israele come stato ebraico".

Secondo l’esperto di diritto internazionale, la richiesta palestinese per una piena adesione come stato all’Onu ha “aspetti negativi più che positivi, poiché nasce dallo sforzo di nascondere i difetti della leadership palestinese, per quanto riguarda i suoi fallimenti che risalgono al 1993, ad Oslo”.

Ha aggiunto che l’Autorità palestinese ha “rimediato ai propri recenti fallimenti nel recuperare il corso del processo di pace dal suo impasse attuale e nel riempire il vuoto politico esistente, consegnando un risultato vuoto”. Al-Qassem ha ricordato un’intervista con il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, nella quale egli affermava che i negoziati erano la sua prima e definitiva scelta. “La richiesta verrà presentata al Segretario generale delle Nazioni Unite, che potrà ritardarne l’invio al Consiglio di Sicurezza, oppure trasferirla al Consiglio stesso che potrà poi chiedere un imprecisato periodo di tempo in cui prenderla in considerazione”.

Criticando le affermazioni dei partiti dell’Anp secondo cui la parte palestinese non perderà niente nel caso la richiesta fallisse e guadagnerà circostanze più favorevoli nel caso avesse successo, Al-Qassem ha affermato: “Dichiarazioni simili mancano di saggezza politica e mettono la causa palestinese in una situazione precaria”.

Ha sottolineato che la membership all’Onu per uno stato palestinese indipendente basato sui confini pre-giugno 1967 “instaura tali confini e indebolisce la risoluzione Onu 194” la quale prevede il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre e alle case che sono stati costretti ad abbandonare durante l’aggressione sionista nel 1948, così come una compensazione. “È diritto del popolo palestinese mettere l’Autorità palestinese sotto processo in corti rivoluzionarie, per la sua negligenza verso i diritti della popolazione”.

Ha accusato gli Stati Uniti ed Israele di aver simulato irritazione verso gli sforzi palestinesi all’Onu nel tentativo di aumentare i costi di qualsiasi accordo risultante. “Un’azione riguardante il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (2004) sul Muro dell'Apartheid e un boicottaggio dell’occupante israeliano sarebbero più utili degli attuali sforzi alle Nazioni Unite”, ha concluso Al-Qassem.

Traduzione per InfoPal a cura di Giulia Sola



Il clima, le guerre e la Somalia


Da diversi anni ormai il rapporto tra cambiamento del clima e conflitti è sotto la lente dei ricercatori. Un esempio recente è lo studio pubblicato su «Nature» da Solomon M. Hsiang e colleghi dell’Earth Institute della Columbia University. In breve, il gruppo diretto da Hsiang ha trovato una correlazione tra il ciclo di El Niño, un periodico riscaldamento e raffreddamento delle acque dell’Oceano Pacifico che può causare periodi di siccità che durano anche anni, e l’insorgere di guerre civili nei paesi della fascia tropicale interessati da questo fenomeno climatico, vale a dire gran parte di Africa, Medioriente, India, Sudest Asiatico, Australia e America, dove vive la metà della popolazione mondiale.

I dati analizzati dai ricercatori hanno riguardato un arco di tempo che va dal 1950 al 2004, e i risultati hanno mostrato che El Niño potrebbe aver giocato un ruolo fondamentale nel 30 per cento delle guerre civili dei paesi tropicali oggetto di studio. Chi volesse saperne di più può collegarsi qui. Per inciso, lo studio ha guadagnato la copertina di «Nature», in cui si può osservare una Terra simile a una bomba mano con la sicura ancora in posizione, ma chissà per quanto.

In effetti, la combinazione potenzialmente esplosiva tra riscaldamento globale e guerre è uno dei cavalli di battaglia di chi si occupa di sensibilizzare decisori politici e opinione pubblica riguardo il cambiamento del clima del pianeta. Non a caso il premio Nobel per la pace del 2007 è andato ax-aequo all’ex vice presidente degli Stati Uniti Al Gore e all’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) per «il loro impegno a costruire e diffondere una maggiore conoscenza sui cambiamenti climatici dovuti all’uomo e per porre le basi per le misure necessarie a contrastare tali cambiamenti.»

E non a caso il recente conflitto del Darfur in Sudan, costato oltre 200.000 morti e 2,5 milioni di profughi, avrebbe secondo diversi esperti, e il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, anche una causa climatica. In particolare, un aumento progressivo della siccità dell’area dagli anni ottanta avrebbe esacerbato le tensioni etniche già presenti portando alla guerra che è stata ampiamente raccontata dai mezzi di informazione globali, soprattutto da quelli statunitensi e britannici.

Ovviamente, questa correlazione tra cambiamento climatico e guerre ha anche numerosi critici, pure nella comunità scientifica. Per esempio, un anno fa sui «Proceedings of the National Academy of Sciences» è stato pubblicato uno studio di Halvard Buhaug, ricercatore di scienze politiche del Peace Research Institute di Oslo, che non ha individuato alcun collegamento causale tra cambiamento del clima e una serie di guerre civili che hanno insanguinato alcuni paesi dell’Africa sub-sahariana negli ultimi 50 anni.

Insomma, ancora c’è da lavorare dal punto di vista della ricerca, come ammettono gli stessi autori dello studio appena pubblicato su «Nature», perché le variabili sociali ed economiche sono importanti quanto quelle climatiche. Per dire, uno dei paesi analizzati Hsiang è stata l’Australia, dove si sono sperimentati periodi di siccità prolungati ma nessuna guerra. Il quadro però è chiaro: diminuiscono le risorse (a causa del cambiamento climatico) aumenta il rischio di conflitti. In fondo, è una storia vecchia quanto l’umanità.

C’è però un altro punto della questione su varrebbe la pena riflettere, ed emerge da quanto sta accadendo in Somalia, e più in generale in Corno d’Africa, dove la peggiore siccità degli ultimi sessant’anni sta pesando su 12 milioni di persone e ha provocato esodi di massa di dimensioni bibliche. Ebbene, già un anno prima della siccità, alcuni climatologi che lavorano per il Famine Early Warning System Network (che aiuta i decisori politici a prevenire disastri umanitari in campo alimentare) avevano lanciato l’allarme proprio sulla base di studi su El Niño. Uno di loro, Chris Funk, lo ha spiegato molto bene su SciDev. net e «Nature». Tutti i dati climatici e i rapporti dal territorio interessato lasciavano presagire il peggio, che è puntualmente arrivato. Per Funk, in questo caso la tecnologia ha sorpassato la capacità di risposta.

Ecco il punto: chi doveva intervenire? O meglio, chi avrebbe avuto interesse a intervenire in una delle aree più turbolente del mondo, di fronte a previsioni di una catastrofe umanitaria che avrebbe riguardato milioni e milioni di persone?

Insomma, che ce ne facciamo del progresso della conoscenza, di studi sempre più precisi e attendibili delle conseguenze sociali del cambiamento climatico, se poi la politica si dimostra impreparata, anzi inadeguata. Magari perché i politici pensano che sia un problema lontano. Ma non è così, come dimostrano i flussi migratori, causati anche dai disastri ambientali, un fenomeno ben descritto nell’articolo I rifugiati del clima pubblicato su «Le Scienze» di marzo 2001.

Ho contattato Koko Warner, uno degli autori dell’articolo sui rifugiati del clima, in cerca di lumi. E mi ha spiegato che l’incidenza sempre più forte dei cambiamenti ambientali e climatici le strategie di intervento post-disastro potrebbero non essere più sufficienti e soprattutto non sostenibili. Si deve agire nell’ottica di prevenzione. Dall’altra parte del Mediterraneo c’è uno dei continenti più vulnerabili al cambiamento climatico e alla variabilità climatica, ha precisato Warner, dove già oggi il 25 per cento della popolazione soffre di scarsità d’acqua.

A chi tocca il cerino?